Il triste recinto
degli alieniati

Disegno di Agostino Cortella, Collezione Disegni di Alienati e Mattoidi, Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso

Agostino Cortella

Agostino Cortella è autore di due lettere e di 48 disegni conservati attualmente nell’Archivio Storico del Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso.
Dall’analisi della sua produzione, la personalità di Agostino Cortella appare certamente ossessionata, afflitta e disturbata, ma l’autore si dimostra anche dotato di una acuta intelligenza, che si esprime nell’ironico cinismo dei testi e nella forza espressiva dei disegni. Non a caso questo paziente del Regio Manicomio di Torino aveva destato l’interesse di Lombroso, che con i suoi disegni realizza alcuni collage destinati alla pubblicazione in una delle sue più celebri e complesse opere: L’uomo di genio in rapporto alla psichiatria, alla storia e all’estetica, (Torino, Bocca, 1894).
In una delle due lettere Cortella si rivolge al fratello Filippo, fornendo importanti informazioni sul suo carattere e sulla sua personalità, oltre che sulla sua vita prima del ricovero. Egli è stato per 5 anni soldato, periodo nel quale sostiene di aver riportato una qualche infermità alle gambe, e ciò nonostante di aver continuato a prestare servizio militare in finanza. La lettera contiene anche una descrizione della condizione di recluso di Cortella all’interno del Regio Manicomio di Torino, dove l’uomo si trova a partire dal 1 maggio 1870. É evidente la condizione di estrema sofferenza e frustrazione in cui si trova l’autore, e il profondo rancore che egli prova per coloro che ritiene responsabili per la sua ingiustificata reclusione: la guardia di finanza, i politici italiani, la Chiesa. In manicomio, dove sostiene di essere stato tratto con l’inganno, egli si sente perseguitato e maltrattato ingiustamente, e definisce ingrata l’Italia, per la quale aveva abbandonato il paese natio, l’Austria, e combattuto duramente per “compire l’opera italiana”.

“Caro fratello,

Nel profondo degli avvenimenti ora mi ritrovo costretto di ricorrere alla tua benignità non avendo altri del cuore per confidarmi. Per descrivere la mia vita non è sufficiente un foglio di carta, ma bensì recepita la preferenza personale, per cui solo ti basterà un sunto breve per non recarti tedio.
Dal 1° maggio 1870 mi ritrovo qui sotto l’aspetto di uomo sospetto per pazzia. […] Sotto l’aspetto di Regio Manicomio si fanno lecito i signori componenti il personale di servizio di ogni barbarità ponendo un uomo veramente alla disperazione.
Ogni giorno e notte non fo che pregare Cristo e la beata Vergine per cui mi si colpisca d’un colpo apoplettico come fu la morte del nostro dolente padre. Tu solo caro Filippo puoi essermi utile e generoso, tu conosci la mia tendenza, tu sai se io sono mai stato un vagabondo su questa terra di lacrime, ben lo sai che fui anch’io soldato per la ferma d’anni 5 intenzione per le imperfezioni acquistate alle gambe servano di testimonianza dei servizi prestato appo questa infame nazione barbara per cui in compenso mi si fecero sopire mille e più mille dispiaceri sia nelle fila dell’esercito sia come infine in finanza. La vita ora per me non serva che di pesantore opprimente la poca mia vivacità; il cuor tra la morsa come fosse un ferro da rodersi e corrodersi con la lima. Non vi è altro scapo che quello di sperare in una buona o cattiva morte. Sarei più vigliacco della terra avessi da confidarmi con coloro che barbaramente mi tradussero in questo macello umano (lascito di Carlo Alberto, Re di Piemonte).
[A lato:] (esito dell’ultimo consiglio riconosciuto pazzo tendente al malfare)”


La seconda lettera in nostro possesso purtroppo è più difficilmente leggibile. Si intuisce tuttavia che Cortella si rivolge al console austriaco a Torino, a cui chiede di essere perdonato per il suo tradimento e riammesso nel paese d’origine, dove intenderebbe prestare servizio militare.
Dei disegni di Cortella, soltanto 8 hanno soggetto figurativo. Tra questi abbiamo un ritratto, due architetture, due paesaggi di montagna, una natura morta ed una interessante scena, definita da Cortella Ecce homo, che raffigura una “Giovinetta di 80 anni, ma per la sua anima vecchia di anni 18 merita la stima”.
Fatta eccezione per questi pochi casi, i disegni di Cortella sono tutti disegni di tipo ornamentale: complicati arabeschi che vengono reiterati compulsivamente, in sequenze modulari. Evidente è la tendenza verso l’horror vacui, cioè la propensione a coprire completamente il foglio con il disegno, fino agli angoli e ai margini, lasciando pochissimi spazi vuoti.
Molti dei disegni sono accompagnati da frasi autografe dell’autore. Sono questi brevi stralci di testo, più che i disegni, che permettono di identificare le ossessioni di Cortella: la corruzione politica, la fissazione per i confini tra Austria e Italia, il disprezzo per la Chiesa e la religione, tematiche trovano un riscontro ed una conferma nelle due lettere.

Disegno di Andrea Oderda, Collezione Disegni di Alienati e Mattoidi, Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso

Andrea Oderda

Di questo autore non esistono purtroppo informazioni biografiche che permettano una lettura approfondita dei disegni conservati nella collezione Disegni di alienati e mattoidi dell’Archivio Storico del Museo Cesare Lombroso. I 110 disegni di Oderda si trovano nelle pagine di un piccolo quaderno. Nonostante le pagine del quaderno siano state numerate, probabilmente in modo postumo, non vi si trovano purtroppo indicazioni che permettano di stabilire una data di realizzazione o un luogo di provenienza. Nell’intero quaderno, l’unica iscrizione che ci è dato ipotizzare come autografa, realizzata in inchiostro bruno sul margine superiore di alcuni disegni, è la frase “Frangar non flectar”, e non fa che accrescere il mistero dei disegni e del loro autore.
Infatti la locuzione latina Frangar, non flectar, tradotta letteralmente, significa "mi spezzerò ma non mi piegherò"; nella traduzione italiana, viene citata spesso come "mi spezzo ma non mi piego". È usata come motto gentilizio, o per indicare un'integrità morale che non cede davanti a nessuna minaccia o pericolo.
La perizia con cui i disegni sono stati realizzati, la delicatezza e l’eleganza dei colori, la precisa simmetria dei motivi decorativi, fanno del piccolo quaderno di disegni un unicum all’interno della collezione, tanto da aver incuriosito ed affascinato anche studiosi e critici d’arte: i capolavori di Oderda non a caso sono stati esposti nel 2012 in occasione della famosa mostra “Banditi dell’arte”.
Cesare Lombroso, che colleziona a fine di studio opere dei pazienti degli ospedali da ogni parte d’Italia e del mondo, guarda a queste opere con occhio analitico, anche se non propriamente diagnostico, e in particolare mette in relazione il tipo di composizione con la forma di alienazione che affligge l’esecutore.
Anche studi più recenti, nella scia di Cesare Lombroso e Max Simon, volgono a caratterizzare il disegno degli alienati in rapporto alla loro forma psicopatologica, fino a trovare un quadro grafico da avvicinare a quello clinico. In particolare sembra coincidere con l’operato artistico di Andrea Oderda quella che viene definita maniera schizofrenica del disegno, poiché ritrovano in questi disegni:

  • La Stereotipia. Termine che evoca l'idea di un cliché e di una macchina che stampi di seguito sempre lo stesso elemento. Le forme stereotipe sono identiche, monotone, di un carattere meccanico che traduce la loro origine automatica.
  • La Stilizzazione, per cui le figure hanno tratti decisi, semplici e lineari.
  • La Iterazione, per cui un certo elemento viene ripetuto secondo un certo schema legato a un numero.
  • L’Horror vacui, la tendenza cioè a riempire la superficie del foglio per intero.
  • La maniera calligrafica, che preferire allo schizofrenico l’uso del lapis o del pennino a quello del pennello.

Disegno di James Wanamacker, Collezione Disegni di Alienati e Mattoidi, Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso

James Wanamacker

Un altro dei casi più interessanti e preziosi nella collezione lombrosiana è quello di James Wanamacker di Philadelphia. Di questo autore si trovano in archivio ben 134 disegni, e la raccolta costituisce il corpus più consistente tra quelli dei Disegni di alienati e mattoidi.
I disegni sono realizzati a lapis su fogli singoli di piccole dimensioni, e quasi tutti riportano la complessa firma dell’autore, che spesso non si limita al solo nome ma scrive in un’accurata calligrafia corsiva: “James Wanamacker who was James Lewis, 703 Pine St, Philadelphia”, avvalendosi quindi di una doppia firma che ci consente di stabilire un indirizzo di provenienza delle opere. I lavori sono anche numerati, probabilmente dall’autore stesso, e in molti casi accompagnati dalla data di realizzazione. La maggior parte di questi disegni curiosamente innocenti raffigura donne con seni abbondanti e gambe tozze, ritratte di profilo o di tre quarti: lo storico dell’arte John MacGragor definisce le pose delle donne di Wanamacker “various states of undress”, le donne raffigurate dall’autore sarebbero quindi ritratte nell’atto di spogliarsi, in posizioni che fanno ipotizzare che nella mente dell’autore i disegni avessero una destinazione sessualmente significativa, forse addirittura pornografica.
Nonostante i soggetti dei disegni di Wanamacker siano tratti da foto di riviste, lo stile è unicamente suo: l’abbigliamento e l'acconciatura ricordano i ritratti di epoca romantica e vittoriana, ma qui il disegno è eseguito in un modo ossessivo e intricato che può diventare addirittura bizzarro nella minuzia di certi dettagli: i volti delle donne ad esempio sono omologhi e caratterizzati da linee semplici; fanno eccezione gli occhi, che hanno proporzioni esagerate rispetto al viso, lunghe ciglia e sopracciglia enfatiche. Gli uomini non sono esclusi dai disegni dell’autore, ma compaiono più raramente e non sono raffigurati in modo altrettanto complesso ed articolato: gli abiti sono più semplici, le spalle rigorosamente squadrate, le pose rigide e fisse. Da notare è il fatto che personaggi maschili e femminili non compaiono mai insieme in uno stesso disegno.
Non sappiamo se il mondo di queste persone alla moda, dell’alta borghesia statunitense, fosse quello di James Wanamacker; certo è che egli ne era affascinato al punto di fare di esso una idea fissa. Questa realtà seducente è rappresentata anche in una serie di immagini che riproducono oggetti della vita quotidiana: carrozze, barche a remi e battelli a vapore, sofà e mobili pregiati, oltre alle facciate delle grandi abitazioni nello stile pittoresco tipico degli stati dell’America settentrionale.

Disegno di George Asner, Collezione Disegni di Alienati e Mattoidi, Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso

George Asner

Il valore del disegno di George Asner è inestimabile, non solo per le sue evidenti qualità artistiche, ma anche e soprattutto poiché è l’unico caso all’interno della Collezione Disegni di mattoidi e alienati, che vede il disegno accompagnato da un testo integrale dell’autore, lungo e complesso.
La parola scritta assume importanza vitale nella decodificazione di disegni dal contenuto misterioso, il cui significato appare chiuso ad ogni interpretazione a meno che non sia l’autore stesso a fornirne una chiave di lettura. Il testo in inglese di George Asner si relaziona perfettamente con il suo disegno e lo illustra in ogni dettaglio, così che esso non risulta solo un inquietante paesaggio, ma una allegorica visione apocalittica, che assume un senso compiuto alla luce delle vicende biografiche dell’artista.
Si è voluto qui riportare la traduzione integrale del testo di Asner:
“Lunedì 21/3/1895. Spiegazione del disegno “Leithning Alpes”.
Dalle nubi la Mano di Dio manda il suo fuoco distruttore sul posto dell’idolatria: la Chiesa.
I preti si sono dimenticati di essere uomini, e nemmeno vedranno più se stessi a perdonare i peccati. Per ciò vengono sbeffeggiati. E tutti i manicomi stanno protestando per queste studiate sciocchezze. Essi sono sempre stati bestie senza cuore. Il lupo e i corvi ladri lo provano. Ma ancora meglio (lo provano) le parole della Storia, e la presente rivolta contro i preti in Cina, in Armenia, in Turchia e a Cuba. Ed anche il marciume di tutto il mondo.
È la guerra che vogliamo, oppure liberarsi dei preti. La stessa cosa della rivoluzione. Si suppone che le poche persone sulle montagne ricostruiscano la chiesa. Io spero che non lo facciano. […] Ma al fuoco con essa. Quando ero un ragazzino di quattordici anni io sono stato oltraggiato dai preti, altrimenti non sarei qui. […]
La bandiera sul castello è indipendente in (questi) gravi momenti. La fascina che brucia illumina l’intero nemico. Il cannone con le palle pronte per la guerra. Il fieno nelle nuvole è fatto di serpenti della Chiesa. La falce vicino al raccolto del campo di grano. In tutto questo c’è un quadro apocalittico. Franchins la corrente di fulmini non potrebbe salvarla. Con questo non intendo danneggiare Benjiamin Franklin.
Nella scuola del nostro villaggio avevamo la sua storia sui libri di scuola. No Maude, Cara, io non crederò che sia colpa di Franklin. Una scarica di fulmini ha colpito la chiesa della nostra scuola a Welshofen.
Fine. George Asner.”

La presenza stessa di questo testo, unitamente al suo contenuto, ci consente di avvicinare l’opera di Asner a quella che viene definita “maniera del disegno paranoico”. Secondo la moderna psichiatria è difficile che un paranoico disegni, più facile è invece che egli scriva.
Egli è un rivoluzionario, un vate, il quale lotta per cambiare il mondo o un qualche suo aspetto. Si sente, dunque, un’uomo d’azione, e come ogni rivoluzionario, usa tutti i mezzi a sua disposizione, scritti, conferenze, e spiegazioni delle sue teorie, che sono interpretazioni del mondo. Quando disegna, lavora con caratteristiche estremamente originali. Una caratteristica predominante è il simbolismo, il più delle volte conscio e giustificato da lui stesso nei suoi discorsi. Ogni segno è motivato e coerente con tutta la sua visione del mondo. Il simbolismo consiste qui nella capacità di utilizzare elementi dell’esperienza comune caricandoli logicamente di significati che sono pilastri della tematica paranoica. Egli strumentalizza tutto, ogni elemento viene sistematizzato nei suoi deliri di grandezza o di persecuzione, che vengono tradotti in espressione grafica. Gli oggetti, in questo caso i lupi, i corvi, la falce ed i fulmini, vengono riferiti per indicare un processo interpretativo e una particolare maniera di utilizzazione.
Non si può tuttavia escludere un’interpretazione più letterale del disegno, in particolare per quanto riguarda la fissazione dell’autore per le nubi e per il fulmine: può darsi benissimo che egli avesse recentemente assistito ad un temporale, una scena di notevole impressione soprattutto per una situazione psichica psicotica o schizofrenica. Si può anche supporre che il paziente subisca gli effetti di quella condizione che Viktor Tausk descrive circa un decennio più avanti nel suo saggio Sulla genesi della "macchina influenzante" nella schizofrenia: nel lungo articolo, Tausk propone per la prima volta un'interpretazione psicoanalitica coerente ed approfondita dei dinamismi sottesi al costrutto delirante della "macchina influenzante", uno dei tematismi persecutori più frequenti in pazienti schizofrenici. In questi casi, il paziente si sente “fulminato”, quindi l’idea fissa di George per fulmini e per l’elettricità, evidente anche nella citazione del nome di Benjamin Franklin, potrebbe essere in realtà un riferimento al trattamento da egli stesso subito con l’elettroshock, che si praticava allora con molte poche remore.

Abiti di Giuseppe Versino, Collezione permanente, Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso

Giuseppe Versino

In una giornata di sole del 1902, la Società Promotrice di Belle Arti e il parco del Valentino di Torino ospitano la "Prima esposizione internazionale d'arte decorativa moderna", che vuole celebrare le arti applicate e la moderna architettura Liberty. Come tanti torinesi, anche Giuseppe Versino, un nullatenente stabilitosi da poco in città alla ricerca di un lavoro dalla vicina Giaveno (dove nasce nel 1882), si muove fra le strade in festa vicine al fiume Po. Non è possibile stabilire con precisione quale fattore scateni l’agitazione dell’uomo, ma probabilmente la folla e la calura estiva confondono Giuseppe a tal punto che le guardie municipali lo trovano in stato di grande eccitazione ed esaltazione. Egli viene trasportato con la forza in ospedale, e da qui mandato al Regio Manicomio di Torino nella sede di Collegno, dove a verificare il suo stato di salute sarà il direttore Antonio Marro, che ne ordina il ricovero immediato diagnosticandogli una “precoce demenza”.
Lo psichiatra ne convalida le dimissioni dall'ospedale per tre volte e ne dispone il ricovero altrettante, fino al 1913. A giugno di quell'anno Antonio Marro muore, mentre, qualche mese prima, Versino esce definitivamente dal manicomio per fare ritorno a Giaveno, dove morirà nel 1967.
Durante un ricovero in ospedale Versino viene fotografato da Antonio Marro mentre porta alcuni bizzarri vestiti da lui stesso creati. Il paziente infatti, addetto alle pulizie degli ambienti manicomiali, era solito al termine del turno lavare gli stracci utilizzati durante il giorno, e sfilacciarli fino a ottenere un filo in cotone che riannodava per creare “vestimenti” complessi, pesanti e colorati. Queste produzioni attirano subito l’attenzione del medico, che le fa rientrare nella denominazione di “arte dei pazzi” del collega e amico Cesare Lombroso, a cui donerà una parte della collezione di abiti del paziente, ovvero una tunica lunga e una corta, un paio di pantaloni, un paio di scarpe, un cappello e una sciarpa. Al criminologo dona anche due fotografie che ritraggono Versino mentre indossa le sue creazioni. Le fotografie sono accompagnate da un’annotazione dello stesso Marro, che recita:

“… Il peso di questo vestito, così confezionato, è di kg 43, e l’ammalato ben raramente, estate e inverno, si astiene dall’indossarlo. Per ricostituire il suo vestito il Versino impiegherà circa un mese.”

La scarsità di notizie non permette di indagare sulle motivazioni che spinsero Versino a realizzare tali opere, né offre la possibilità di conoscere meglio il suo vissuto all’interno del manicomio o il suo quadro clinico, poiché si fa riferimento solo alla sua patologia in modo generico.
Le altre opere di Versino saranno invece ereditate e conservate dal figlio di Antonio, Giovanni Marro, anch’egli medico psichiatra a Collegno, che comincia la sua carriera lavorando presso il Manicomio diretto dal padre.

Mobile di Eugenio Lenzi, Collezione permanente, Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso

Eugenio Lenzi

“Un’idea esatta complessiva ne dà uno strano mobile (regalatomi dal Cristiani, direttore del Manicomio di Lucca, in cui due figure stecchite con le braccia inchinate, cariche di ornamenti stanno ai lati di un porta-specchi, il quale a sua volta poggia su altrettante figure e su gruppi di animali, il tutto aggrovigliato con fiori, foglie, lettere e stelloncini. ‘È l’opera (mi scrive il Cristiani) di un monomane persecutorio che si crede un genio miracoloso dell’arte, recluso al manicomio per poterlo derubare dei suoi capolavori. Era prima un mediocre intagliatore e divenne artista stranamente fecondo sotto la malattia’”.

Con queste parole Cesare Lombroso descrive i mobili realizzati da Eugenio Lenzi. Come purtroppo accade per gran parte degli autori delle opere conservate nelle collezioni degli psichiatri Cesare Lombroso e Giovanni Marro, anche in questo caso la scarsità di informazioni in nostro possesso permette una ricostruzione solo parziale delle vicende biografiche dell’artista. Certo è che egli è ricoverato a partire dall’11 Luglio 1877 presso il Regio Manicomio di Lucca, dove giunge da un precedente breve ricovero presso il Manicomio di Genova. A Lucca il Lenzi rimarrà fino al 9 Febbraio 1881, quando viene dimesso e affidato alle cure domestiche del cognato Arcangelo Fabbrini.
Dal recente ritrovamento della sua cartella psichiatrica apprendiamo che Eugenio di Nicola Lenzi è originario di S. Anna, un paesino della campagna lucchese. È celibe, di costituzione mediocre e cagionevole, di religione cattolica e falegname di professione anche se non impegnato in alcun impegno ufficiale.
Nell’ospedale psichiatrico di Lucca è affidato alle cure del vice-direttore Andrea Cristiani, che lo ritiene affetto da monomania e mania di persecuzione, e che è tal punto affascinato dalle sue creazioni scultoree da dedicargli un trattato dal titolo Atavismo dell’Arte in un paranoico originario con delirio fastoso-persecutorio a colorito artistico.
Cesare Lombroso intrattiene una fitta corrispondenza con Andrea Cristiani, e che condivida la fascinazione di quest’ultimo per le opere del Lenzi è confermato dal fatto che i suoi mobili siano ancora oggi custoditi ed esposti nelle sale del Museo di Antropologia Criminale di Torino.
Tra questi, un grande e complesso mobile-secrétaire, realizzato in legno assemblato e intagliato, e una pseudo-specchiera appoggiata ad un tavolo, anch’essa significativamente intagliata con figure-cariatidi in alto e figure reggenti nella parte bassa.
A prima vista potrebbero stupire la sproporzione delle figure, la specchiera in cui non è possibile specchiarsi, l’incongruità di taluni dettagli; ma va invece osservato che il loro autore, benché disturbato, in realtà non fa che tradurre con i suoi mezzi una cultura del mobile abbastanza diffusa nel secondo Ottocento, anche a livello internazionale. L’impianto del mobile infatti sembra barocco, ma le figure dipinte suggeriscono un richiamo orientale – o quantomeno esotico – tipico delle scoperte dei Primitivismi della ultima parte del secolo.
Un altro caso davvero sorprendente è una sorta di gigantesca pipa-calumet, animata sulla parte superiore da figure primitive nude ritratte in varie pose coricate o a cavallo, che si appoggia tramite un perno a un tavolo di forma circolare, anch’esso adornato da figure dall’aspetto decisamente totemico. Allude forse a questa Lombroso quando parla di “pipe gigantesche, irretite da gruppi di figure allegre, fin troppo, cariche di ornamenti e di epigrafi”. Nel complesso le opere di Eugenio Lenzi sono caratterizzate da un linguaggio semplice ed icastico unito a uno slancio fantastico che, forse, viene da informazioni e suggestioni su mondi remoti come quello dei nativi americani.

Album di Autografi di Alienati, Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombrosoo

Cesare Farina

“ …Molti giornali […] sorsero in tutti i migliori manicomi d’Italia. Ogni numero di questi curiosi diari, portava in sé […] la dimostrazione di quella tesi, creduta per tanto tempo un bislacco paradosso, e [che ora] riusciva a convincere i più: quanto poco nell’alienato s’avveri di quel caotico e assurdo che le menti volgari vi appiccicano, e come anzi spesso l’alienazione dia luogo ad una non ordinaria lucidezza di mente”

Nelle teorie lombrosiane la somiglianza tra “cerebrazione incosciente del genio” e “atti impulsivi dei pazzi” è profonda: l’estro creativo si fonde in un solo e unico prodotto con la malattia mentale. Questo avviene sia negli uomini di genio sia in quei pazzi che geni non sono, ma che “lo diventano per qualche tempo, nei manicomi, e che ci additano l’originalità, la creazione artistica ed estetica formarsi solo in grazia all’alienazione nei meno predisposti”.
Ne è un esempio la memoria del calzolaio Cesare Farina, raccolta direttamente dallo psichiatra veronese nel Manicomio di Pavia, il 22 novembre 1866, più volte pubblicata e commentata in questo modo nell’edizione di Genio e follia del 1877:
“È singolare che un uomo non avvezzo alla cultura letteraria abbia potuto esprimersi con tanta chiarezza e spesso con tanta eloquenza. […] Chi alla lettura di queste strane pagine può dubitare, più, che vi siano casi, in cui la pazzia dà agli intelletti volgari un lievito sublime che li solleva dal livello comune?”

L’uomo, alienato fino dalla giovinezza ma in apparenza tranquillo e sereno, aveva accoltellato uccidendola a sangue freddo una donna “di null’altro colpevole se non d’essere madre di una bella ragazza, di cui egli in un delirio erotico si credeva amante riamato malgrado non avesse avuto con essa il minimo contatto o rapporto”. Nella sua MEMORIA riguardo alle conseguenze della mia sventura, l’infelice dimostra effettivamente grande eloquenza e capacità evocative, in particolare nella descrizione dell’omicidio e dei suoi deliri di persecuzione:

“Restai allora in balia d’un pensiero dei più furenti; ma pensando che era per me una sciocchezza il sol pensarvi, ne bandii dal mio cuore ogni ricordo.
[…] Al declinar dell’inverno i miei avversari, fautori della G., incominciarono a perseguitarmi.
[…] Irritato da tanta persecuzione io girava per le stanze furioso, delirante, come se non fossi stato ragionevole, immerso in un più straziante pensiero che m’impediva quasi conoscere cosa mi facessi. Alfine […] pensando a questi insoliti eventi, decisi di vendicarmi ad ogni costo, e armatomi d’un coltello da cucina i avviai dalla mia avversaria.
[…] Entrando in bottega ella venne ad incontrarmi… ed io mi vendicai.
[…] Non saprei indicare la maniera che mi sentiva allora, se fosse il sonno o la stanchezza che mi opprimeva i sensi, fatto è che dietro di me sembravami di sentire un canto infernale, e tra questi una voce che sorpassava le altre e che fosse quella della uccisa G., e che a questa poi io volgendomi, essa spariva lungi, tra le foreste, lasciando sentire moriente il suo canto.”

Nella collezione “Album di autografi degli Alienati” conservata presso l’Archivio Storico del Museo Cesare Lombroso sono presenti inoltre quattro lettere dello stesso, nelle quali l’alienato Farina si lamenta del trattamento ricevuto in Ospedale, dove è tenuto costantemente sotto stretta sorveglianza, e si rivolge al Prefetto e alla Direzione del Manicomio pregandoli di accogliere la sua richiesta di dimissioni e di essere rimesso in libertà.
Nonostante non ci siano prove che il Farina abbia prodotto alcun tipo di manufatto artistico, la potenza espressiva che egli dimostra nella lucida descrizione del suo furioso delirio ci permette di annoverare questo autore tra i casi più degni di nota tra i pazienti degli Ospedali psichiatrici del tempo. Non a caso Lombroso stesso cita ampiamente i suoi scritti nelle varie edizioni di Genio e Follia e de L’uomo di genio. Pertanto il nostro calzolaio ci appare meritevole di essere menzionato in questa sezione dedicata ai personaggi “illustri”.

Il Mondo in Rivista, Mario Eusebio Bertola, Collezioni di Art Brut, Museo di Antropologia ed Etnografia di Torino

Mario Bertola

Mario Eusebio Bertola nasce a Mondovì, in provincia di Cuneo, l’11 Agosto 1898. Purtroppo sappiamo poco o nulla della vita che l’uomo conduce prima del ricovero in ospedale psichiatrico e delle ragioni del suo internamento, che avviene il 4 Aprile 1928. Dal recente ritrovamento della sua cartella clinica presso l’Archivio Ospedali Psichiatrici torinesi dell’ASL3 di Collegno, apprendiamo che egli è un compositore tipografo residente a Collegno.
Tracce della sua professione si trovano nella sua incredibile opera intitolata dall’autore stesso Il mondo in rivista. Si tratta di un album di 80 pagine ricco di brevi composizioni poetiche e disegni a china colorati con pastelli a cera. Ogni pagina dell’album è composta do una griglia di 8 riquadri, contenenti piccole miniature dal soggetto fantastico o mitologico accompagnati da didascalie, che spesso ne definiscono il contenuto “allegoria”. Bertola raffigura per lo più animali reali e fantastici, figure umane, personaggi storici e oggetti d'uso comune in scene molto semplici o più complesse tratte da opere liriche, ad esempio La Traviata, o letterarie, come La Divina Commedia o L’Odissea. Si trovano spesso rappresentate anche scene di totale fantasia come un paradiso con due Eve o mondi popolati da fate e animali irreali denominati Uccentauri, metà uccelli e metà dinosauri. L’autore inserisce in alcuni casi anche riferimenti al proprio periodo storico, come la raffigurazione di un giovane balilla, di alcuni gerarchi fascisti e del Duce.
I componimenti poetici inseriti all’interno dell’album, sia autografi che stipati su graziosi cartigli, aiutano a chiarire almeno parzialmente lo scenario in cui, nella mente dell’autore, si svolgono gli episodi rappresentati dai disegni.
Riportiamo qui un esempio.

“LA TERRA DELLE SIRENE; una pagina di una storia.
Abbandonata l'Isola ad Est della rotta del sommergibile, i fori per l'avvicinamento della notte aprivano la luce rossa sopra l'oceano, il "Condor" sommergibile a tutta prova viaggiava ad una velocità di venti leghe all'ra, l'isola non era più che un semplice ricordo, ma in aiuto di essa, perchè non si disperdesse nella memoria dei pionieri, avanzava in direzione del sommergibile "Condor" una falange di caimani, animali a tutti noti dalle forze di coccodrilli; la terra che si avvicinava alla nostra scoperta, aveva forse mandato contro i pionieri il suo secondo contingente di forze per fermare la loro avanzata e distruggerla. Terra delle Sirene prende per nome questa meta, per essere questo Oceano dichiarato da studiose persone l'Oceano che offra ospitalità e per nido a questa qualità di animale, esaltati nei libri e nei dipinti mai effettivamente toccata con le mani, o visto almeno nella realtà del nuoto con gli occhi. La metereologia ha posto la Sirena a rappresentanza della politica e idealità della donna che fornita di semplice carattere, priva di quelle finalità che rendono rude, violento e imbattibile l'uomo, armate di tutto quanto può formare l'esultanza della vita, la leale farfalla che non attende dal mondo che la rinascita della Primavera per volare di siepe in siepe, di prateria in prateria senza ostacoli, e con l'allegoria del giorno avere fornito alla notte un giorno di più di luce: un astro per illuminare le tenebre rinnovatrici di un altro giorno.”

Il Nuovo Mondo, Francesco Toris, Collezione di Art Brut, Museo di Antropologia ed Etnografia di Torino

Francesco Toris

Cosa porta un Brigadiere dei Regi Carabinieri a diventare un abile scultore? E’ la storia di Francesco Toris, che nasce nel 1863 a Colleretto Castelnuovo (Ivrea) e nel 1896, all’età di 33 anni, viene internato con la diagnosi di paranoia nell’istituto psichiatrico di Collegno, dove diviene paziente di Giovanni Marro.
Il Dott. Marro, che approfondisce il caso di Toris nel saggio “Arte Primitiva e Arte Paranoica”, descrivendone i primi due anni in manicomio parla di “vivacissimo delirio di persecuzione” con allucinazioni di tipo uditivo. In questo periodo gli pensa di essere considerato da tutti un’assassino, litiga spesso con gli altri pazienti, scrive lunghe lettere chiedendo la libertà e dichiarandosi innocente. In seguito a questo momento di forte agitazione, cade in uno stato di apatia totale di parecchi mesi. Una volta tornato ad una parziale tranquillità e alle condizioni psichiche iniziali, non mostra più sintomi allucinatori, ma alle idee di persecuzione si sostituiscono manie di possesso e grandezza.
Oltre a dimostrarsi grafomane, ovvero ad avere la tendenza a scrivere senza necessità e senza limitazione, dopo due anni dal ricovero comincia ad applicarsi a lavori d’intaglio sull’osso, creando oggetti strani e volti umani, che poi custodisce abbastanza gelosamente. Con la pratica diventa sempre più talentuoso, nonostante i mezzi limitati di cui dispone e che, tra l’altro, si crea da solo con pezzi di vetri, fili di ferro, chiodi, pezzi di latta, schegge di pietra su manichi di legno o di osso.
Dopo aver scolpito una discreta collezione di oggettini ricavati dalle ossa di scarto delle cucine, Toris inizia ad unirli costituendo un abbozzo di costruzione che va arricchendosi nel tempo di nuove stratificazioni. In cinque anni giunge al compimento di un bizzarro edificio, costituito da un incastro di bastoncini, spicole e piastre poste in ogni senso tramite buchi. L’oggetto è mobile grazie a tre ruote, alto quasi un metro e presenta figure umane, idoli, e animali.
La costruzione caotica realizzata dal paziente è carica di una grande varietà di figurazioni che presentano analogie con la plastica primitiva, in particolare nella predilezione per i volti umani, nella tendenza umoristica, nella stilizzazione delle figure e nell’attitudine a ritrarre i rapporti.
L’opera acquista un nome solo quando l’autore, consegnandola al capo infermiere, afferma di aver creato il “Nuovo mondo, destinato a perpetuarsi e forse a sostituirsi a quello attuale”, secondo Toris ormai irrimediabilmente corrotto e perverso. Questo conferma l’ipotesi di Marro che Toris nel suo delirio si credesse dotato di poteri divinatori, poiché infatti, conclusa l’opera che egli definisce “alta missione”, smise per sempre di intagliare.
Quasi tutti i pezzi d’osso utilizzati nel Nuovo Mondo appaiono vivificati, afferma Marro, in quanto in essi si può scorgere la traccia degli elementi principali o per lo meno stilizzati di un umano o di un animale, anche per quanto riguarda i pezzi di sostegno.
Anche in questo, oltre che nelle caratteristiche stilistiche dell’opera di Toris, Marro vede un parallelismo con l’arte dei primitivi:“La scarsa capacità sintetica e l’esagerato amore per il dettaglio” scrive lo psichiatra “costituiscono, senza dubbio, le fondamentali caratteristiche dell’arte primitiva”. Tuttavia lo stesso Marro ammette infine che l’opera di Francesco Toris risulta eseguita con un “sorprendente sentimento d’arte”.