Il triste recinto
degli alieniati

Acquarello di Bartolomeo Osella, Collezione di Art Brut, Museo di Antropologia ed Etnografia di Torino

I racconti dei pazienti

L’eredità documentaria lasciata da Cesare Lombroso contiene due Album di Autografi degli Alienati. Si tratta di un nucleo di manoscritti redatti da pazienti psichiatrici intorno alla seconda metà del 1800, in particolare tra il 1872 e il 1873 dall’Ospedale di San Matteo di Pavia e il Manicomio di San Benedetto di Pesaro, dove Lombroso lavorò dal 1871 al 1873.
I documenti contenuti negli Album sono per lo più lettere private e scritti dei pazienti, destinati solitamente a parenti, amici, al “Professore” (Lombroso) o al prefetto.
L’immagine della vita in manicomio che si ricava da questi stralci è frammentaria, spesso confusa e quasi sempre velata da un sentimento di profonda tristezza e nostalgia, com’è evidente nelle parole di Paolina Bassano: “Caro papà, oggi qui non resisto e ti scrivo sopra un pezzo di cartaccia […] fammi per carità uscire da questo luogo, oggi fu tanto pianto che fu troppo”.
È ricorrente nelle lettere la richiesta di uscire dalla “casa dei pazzi”, motivata spesso da una permanenza prolungata a oltranza, magari aggravata da “inganni” di familiari e medici finalizzati al ricovero forzato, come in questo caso: “è otto anni dal stabilimento a Milano e poi qui son venuta l’anno del 1867 mi dissero per otto giorni sino che abbiamo fatto una piccola riflessione, ma sei anni non sono otto giorni con le lacrime agli occhi vengo a implorare la grazia”. Non raramente il desiderio di uscire è riconducibile semplicemente alla nostalgia della vita antecedente il ricovero, dei familiari, della persona amata: “a dirti proprio il vero ne ho abbastanza di stare qui, […] mi annoio sono sempre triste e arrabbiato ad non essere vicino a te tu sei la mia vita la mia anima”.
I lamenti presentati dai pazienti sono di varia natura: fame, solitudine, mancanza di libertà sono presenti in quasi tutte le lettere e di frequente i ricoverati, rassegnati alla loro condizione, chiedono di poter per lo meno migliorare la permanenza con la richiesta di avere i propri vestiti, oppure oggetti personali per svagarsi e dilettarsi: “Egregio sig professore sarei a pregare la ben nota di lei gentilessa a voler degnarsi di lasciarmi uscire di qui ed andare a chasa mia, diversamente se debbo rimanere ancora in questo luogo mi facia imparare a suonare il cembalo che lo desidero tanto. il supplicante Besa Francesco”.
Alcuni degenti, a seconda della gravità della loro malattia, si trovano sottoposti a continua osservazione o sorveglianza da parte del personale. Si ha di questo conferma non solo dalla lettura delle lettere ricoverati, ma anche dagli scritti di psichiatri e direttori di ospedali psichiatrici che descrivono il funzionamento della struttura manicomiale e lo svolgersi delle attività al suo interno. È del tutto comprensibile che la continua sorveglianza infastidisse i pazienti, ma risulta anche evidente una traccia del disturbo mentale degli autori quando essi lamentano di essere spiati o pedinati dagli altri malati: “mi si mantiene due guardie le quali sono obbligati spiegare i miei passi, oppure questi da altri amalati mi fanno seguire ovunque sono, questa vita che conduco io è in modo tale che per conoscerla bisognerebbe provarla uno di mente sana, io dal canto mio preferisco mille volte la morte.”. Questi elevati sistemi di controllo come si può notare indisponevano notevolmente i pazienti, soprattutto quando ricevevano le visite dei loro parenti: "e i signori professori e signori alli medici se vogliono essere rispettati cominciano quando vengano i miei parenti a mi lasciar andar con loro a vestirmi e cibare che faranno terminare tutte le questioni e faranno una opera grande e io e alla sua famiglia poi un grande rito avanti a Dio isteso”.
Il trattamento riservato dal personale ai pazienti è diverso nelle varie situazioni, tuttavia si trovano anche nei nostri scritti alcune testimonianze che rispecchiano terribili condizioni di degenza, presenti in Italia in maniera diffusa a quanto riportato dalle fonti bibliografiche quali gli articoli di giornali sull’Inchiesta del 1902 sui Manicomi del Veneto, consultabili presso l’Archivio Digitale del Corriere della Sera.
A tal proposito il paziente Mauro Re si riferisce forse al trattamento riservato ai rivelati ritenuti “pazzi furiosi” quando racconta: “vedo 24 matti legati con catena mani piede ventre una museruola si che mordano il profesore serio mi disse quel letto v(u)oto è per lui. Io [..] andò per terra come fosse morto li dottor mi presero fra loro braccia e mi portarono in un bel giardino”; un altro paziente scrive: “prego di core di venire subito che li di altri an fato il male e mi me vogliono fare fa la penitenzia e se poi mi vero fato del male”.
Malgrado il clima negativo respirato in maniera diffusa, stando ai documenti storici e alle lettere appena citate, appaiono all’interno dell’Album anche racconti dai quali emerge il quadro di una permanenza più piacevole. Scrive il paziente Federico Savini al padre: “son 22 giorni che sono qui, sempre andato alla scuola, e guarisco dalla mia malattia, andando avanti, io sono ben visto dai superiori, al presente e sono ben trattato, mi hanno dato il permesso dandar a spasso, una volta al giorno e a messa la festa”, oppure si può citare nuovamente Mauro Re che, pur ribadendo il desiderio di tornare a casa afferma: “quel che domando ottengo tutti i giorni […] io sono servito come un principe”.
Nella lettura delle lettere emerge un aspetto particolarmente interessante che riguarda il professor Lombroso: i pazienti lo descrivono gentile e disponibile, raccontando delle attenzioni che egli mostrava nei loro confronti e delle piacevoli abitudini che condivideva con loro. Eccone alcune: “il sigr. professore mi fa(scia) divertir conducendomi lui steso spesse volte al passeggio, ed anche a pranzo alla trattoria” afferma Raffaele De Giovanni. Un altro paziente si rivolge a Lombroso scrivendo: “con tanti ringraziamenti della sua gentilissima bontà e pronta cura. Colla più sentita stima la ringrazio”, e un altro ancora “la mia malattia è ormai al suo termine e tutto a te devo in primo luogo, ed alle cure di quanti mi stanno attorno cominciando dall’ill.mo sig Cesare Lombroso e da tutti quanti mi circondano, fino all’ultimo infermiere”.
Queste testimonianze raccontano dunque di una vita dolorosa, spesso in solitudine e in condizioni paradossalmente non favorevoli alla salute. In questo panorama, l’approccio di Lombroso al rapporto con i pazienti spicca per diversità ed emerge per la sua particolare cura e attenzione.
È curioso soffermarsi, oltre che sui contenuti delle lettere, sulla loro organizzazione e il loro aspetto. Lombroso le assemblò nei due Album con un criterio che favoriva la sua ricerca, ed infatti vi si possono notare raggruppamenti mutuati da analogie nella grafia, nei contenuti, nella forma espressiva. Stupisce spesso il contrasto tra contenuti deliranti, confusi e disordinati, ed eleganza e ordine della calligrafia. E’ altresì interessante osservare che ogni lettera è scritta su fogli di diversa provenienza, spesso di riuso, e che in alcune di esse i pazienti scrivevano riempiendo ossessivamente l’intero spazio, in orizzontale e in verticale, in una tendenza verso l’Horror Vacui che è caratteristica peculiare del paziente psichiatrico in diverse forme d’espressione, quali anche il disegno, la decorazione e la composizione scultorea.
Nel luogo e nelle condizioni in cui i nostri autori trascorrevano spesso anni o decenni di vita, la scrittura appare chiaramente uno strumento prezioso per mantenere il legame coi familiari, per esternare i loro stati d’animo, i loro bisogni o semplicemente esprimere la condizione di disagio, mentale e fisico, in cui essi versavano.